Adolescente deriva dalla parola latina adolescèntem, participio presente del verbo adolesco che significa: sto crescendo. È una parola della lingua comune che indica la crescita di un soggetto dopo che lo sviluppo del bambino è avvenuto. Ovvero dopo che il bambino ha raggiunto la pubertà, con la maturazione dei caratteri sessuali, la comparsa dei caratteri sessuali secondari e soprattutto con la capacità riproduttiva.

L’invenzione dell’adolescenza

Siamo così abituati all’uso della parola adolescenza che potrebbe sorprendere dover annotare che in natura l’adolescenza non esiste, dal momento che ogni animale, raggiunta la maturità sessuale, passa senza soluzione di continuità nella condizione di adulto. In natura è solo possibile distinguere tra il giovane adulto e l’adulto nel pieno della sua maturità. Nel caso degli animali la differenza è minima, e si limita al completamento dello sviluppo fisico.

L’adolescenza è invece tipicamente umana, indica un periodo di transizione verso l’età adulta che ha inizio con la “seconda fioritura” della sessualità, al termine del periodo che Freud, il padre della psicoanalisi, ha chiamato “di latenza”. In base al periodo storico e alla cultura di riferimento l’adolescenza può avere una durata variabile. Ogni assetto culturale può essere alleato oppure contrastare un sano sviluppo psicofisico e facilitare o procrastinare la conclusione di tappe evolutive transitorie, affinché altre più mature abbiano inizio. Tale è il bivio di fronte al quale l’adolescenza viene posta dalla civiltà. In estrema sintesi possiamo indicare l’età adulta come l’età del governo di sé nelle articolazioni principali dell’esperienza di ciascuno: il rapporto con la propria sessualità, con l’altro dell’altro sesso, con il denaro, la professione e le istituzioni, e l’adolescenza come il percorso per arrivarci. Va da sé, allora, che alcuni potranno uscirne prima di altri, e altri non uscirne affatto.

Neubauer, l’autore di Adolescenza fin de siècle (1997) scrive che l’enfasi sull’adolescenza come epoca cruciale è cosa recente, per quanto il lemma sia antico. Fino all’Ottocento il bisogno di mettere in risalto il periodo di attesa tra l’avvenuta maturità biologica e l’esercizio effettivo di un ruolo sociale adulto – quindi generativo, produttivo e collegato alla possibilità di intervenire nei processi decisionali della comunità in cui si vive – non era affatto avvertito.

Anche a livello esteriore distinguere un giovane da un adulto in base all’abbigliamento non era immediato, perché il giovane vestiva all’incirca gli stessi panni dell’adulto. La sostanziale identità dell’abbigliamento presignificava una sostanziale identità delle competenze che da lì a poco anche il giovane avrebbe esercitato a fianco dell’adulto, e che in parte già esercitava dall’età infantile, venendo precocemente ingaggiato nel lavoro dei campi, dell’artigianato, nell’industria, nella cura domestica, nell’accudimento dei bambini più piccoli ecc. Anche lo sviluppo biologico si armonizzava senza eccessive difficoltà con le consuetudini sociali, una ragazza entrava nell’età del matrimonio già dai suoi 12-13 anni e un ragazzo dai 15 o poco più.

Immagine ragazzi di schiena

Il rifiuto delle forme sociali 

L’entrata in crisi di questo storico dato di fatto inizia a evidenziarsi solo nella prima metà del secolo XIX. Le tracce principali si trovano nelle biografie e nelle opere di personaggi illustri. 

Soren Kierkegaard (1813-1855) nel Diario (1834-1855) descrive con toni drammatici il suo abbigliamento di giovinetto così simile a quello del padre anziano: “Che malinconia! Anche questa faccenda dei miei pantaloni, di cui si è fatto tanto chiasso, ha una triste (quasi simbolica!) connessione con la malinconia della mia vita. (…)  I vecchi portano i pantaloni più corti (alla caviglia ndr.) mentre i giovani tendono ad andare attillati, specialmente alle gambe. (…) L’infelicità fondamentale della mia vita, cioè che io, benché bambino, fossi scambiato per un vecchio, la si vedeva anche dal mio modo di vestire. Ricordo molto bene quanto mi rese triste (…) dover portare anch’io quei pantaloni corti”. 

Fu proprio questa esperienza che portò Kierkegaard ad adottare un abbigliamento eccentrico, non più infantile ma neppure adulto, segno di una cesura avvenuta nel momento di passaggio dal giovane all’adulto. Kierkegaard non modificò mai l’eccentricità del proprio abbigliamento, reso famoso da alcune vignette satiriche di cui il filosofo danese fu oggetto da parte di un giornale dell’epoca. Egli, infatti, entrò gradualmente in attrito con le forme sociali del tempo fino ad arrivare a un radicale e insanabile rifiuto di esse: rifiuto della professione, di amministrare il denaro, del matrimonio e del rapporto con la donna, delle istituzioni. Se Kierkegaard sia o meno da prendersi come un primo adolescente potrà essere oggetto di dibattito, è invece certo che egli metta in grande rilievo alcuni caratteri della moderna adolescenza, in particolare una sorta di eccentricità esteriore agìta come opposizione e conflitto a forme sociali che egli si sente impossibilitato ad accogliere e impotente a modificare.

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La prima volta in letteratura…

La prima importante opera che consacra in letteratura la parola e la figura dell’adolescente è l’omonimo romanzo di F. M. Dostoevskij (1821-1881), dato alle stampe nel 1875. L’adolescente di Dostoevskij, Arkadij Dolgorukij, è figlio illegittimo dell’aristocratico Versilov e della umile Sofia Andreevna. Arkadij vive una perenne crisi d’identità che sembra non poter essere risolta da nessuno dei suoi sforzi volti ad assomigliare al padre, per ottenerne l’approvazione e il riconoscimento. Con L’adolescente Dostoevskij “scolpisce” a penna una figura drammatica  – costretta tra un’infanzia negata e un ideale di adulto tanto distante quanto indifferente – connotata da uno spirito di rivalsa estenuante e potenzialmente irrisolvibile. Per Arkadij la memoria infantile diventa inaccessibile per un eccesso di maltrattamento e la legittima ambizione a farsi adulto è resa insidiosa dalla malevola indifferenza del padre. Il tratto di Dostoevskij è un tratto moderno e come altri grandi moderni descrive in modo pungente una crisi intervenuta a eclissare la salute del bambino e ad offuscare la mèta della sua crescita.

La difficoltà di accedere alle risorse dell’infanzia è un tratto tipico dell’adolescenza. La spinta ad affrancarsi dalla condizione infantile è infatti ingente e si sostiene anche grazie alla leva psicologica di una presunta superiorità – essere più grandi – della tappa evolutiva raggiunta su quella che precede. Su questa dinamica si fonda anche la valutazione clinica che specifica la psicoanalisi come terapia di lezione per un soggetto adulto, per il quale i ricordi dell’infanzia non siano confusi, o eccessivamente contigui al momento di vita presente.

… e in campo accademico

In campo accademico è stato lo psicologo americano G. Stanley Hall (1844-1924) a fissare, questa volta con il crisma della scienza, l’adolescenza come punto cruciale e determinante della vita individuale. Con questa nuova mappa dello sviluppo individuale G. Stanley Hall, noto soprattutto per aver introdotto S. Freud in America, ha compiuto nei confronti del padre della psicoanalisi un atto di sconfessione, in ultima analisi sovversivo nei confronti delle principali acquisizioni della psicoanalisi.

Per Sigmund Freud, infatti, l’età fondamentale nella vita psichica di ciascuno è l’infanzia, che egli racchiude nel periodo che va dalla nascita ai 5 anni. Entro i 5 anni ogni bambino ha avuto la possibilità di costruire la propria “sana e robusta” costituzione psichica. Nell’intera Opera di S. Freud la parola adolescenza compare solo 6 volte, la parola pubertà 191, la parola bambino compare più di 700 volte e la parola infanzia e sinonimi alcune centinaia.

Ciò che maggiormente contraddistingue S. Freud è comunque la stima per le brillanti capacità intellettuali del bambino al quale – come accennato – viene attribuita una compiuta facoltà di pensiero entro i primi cinque anni di vita. Il pensiero del bambino è trattato da S. Freud senza infantilismi, come pensiero pratico, ovvero orientato, nell’universo delle relazioni, sulla base del principio di piacere, alla soddisfazione. In questa prospettiva, messa in valore dall’intera Opera di Giacomo B. Contri, il principio di piacere, anziché dovere essere superato in favore di un principio di realtà ad esso contrapposto, diviene il principio legislativo di una sana costituzione, che il soggetto promuove autonomamente a principio di realtà elaborando in prima persona le leggi con le quali orientare al meglio le proprie condotte.

Per le altre teorie evolutive – a partire da J. Piaget – ciò che è proprio dell’adolescente a livello cognitivo è il pensiero astratto, che diviene preponderante rispetto del pensiero pratico infantile. Si tratta di un dato che interpreto come segue. L’adolescente molto più che il bambino fa questioni essenziali e astratte. Ovvero, come il bambino fa ancora questioni di principio, ma non più secondo un principio di piacere orientato nella relazione a comporsi con il principio di piacere dell’altro soggetto. Ad esso è sostituito un principio astratto, che non si compone, bensì si contrappone all’altro, in forma di ribellione, di obiezione insormontabile, obiezione essenziale, o appunto, di principio.

Immagine di ragazzo seduto

L’adol-essenza

In proposito Giacomo B. Contri ha coniato il neologismo adol-essenza. In tale elaborazione Contri si incontra con il pensiero di Dostoevskij, che decreta l’uscita dall’adolescenza di Arkadij quando costui esce dal “castigo dell’astrazione” caratterizzato dalla fissazione alle teorie dell’assoluto: del bene assoluto, rappresentato da Myskin nel romanzo L’idiota (1869) e del male assoluto rappresentato da Stavrogin nel romanzo I demoni (1871). “La rinascita di Arkadij (…) comincia nel momento in cui si spegne in lui l’astrazione, quando il gesto attivo – ad esempio la decisione di accettare i soldi da Tat’jana Pàvlovna per proseguire gli studi – si sostituisce alla fissità dell’idea di diventare un Rothschild, un ricco che si eleva alla condizione di solitudine assoluta attraverso il denaro” (A. Anedda 1996). Nell’accettare il prestito Arkadij torna ad avvalersi del pensiero pratico infantile che aveva abbandonato costruendo dentro di sé l’ideale dell’uomo ricchissimo, “essenzialmente” irrelato e autosufficiente.

Presso i greci e gli ebrei

Il concetto moderno di adolescente ha trovato un terreno culturale pronto ad accoglierlo, preparato a lungo nelle principali istituzioni del sapere occidentale a cura della massima autorità in materia: il filosofo greco Platone. Le sue Opere, riscoperte nel Rinascimento, studiate soprattutto in chiave metafisica e come anticipazione della fisica moderna, contengono una vera esaltazione dell’adolescenza. In esse il rapporto maestro-discepolo viene fortemente erotizzato in chiave omosessuale maschile, e il giovinetto, il quale “se accetterà di svestirsi, ti parrà volto non ne abbia” (Platone, Simposio), diviene oggetto di interesse da parte dell’adulto principalmente in quanto “primizia sessuale”. Sotto questo aspetto anche Lolita, il celeberrimo romanzo di V. Nabokov si inscrive nel solco tracciato da Platone.

L’adolescenza non appartiene invece alla tradizione ebraica, che sancisce con il Bar Mitvah (per i ragazzi) a 13 anni e il Bat Mitvah (per le ragazze) a 12 anni l’ingresso nell’età della responsabilità. Pur distinto dal raggiungimento della maggiore età, il Bat Mitvah è la festa in cui si festeggia la “maturità del bambino in adulto”. L’episodio di Gesù tra i dottori, del Vangelo di Luca, riferisce il Bar Mitvah di Gesù di Nazareth e rappresenta un giovane, adulto tra adulti, divenuto esperto dei fondamenti giuridici della sua civiltà, basata sulla Torah, tanto da essere autorevole per i maggiori maestri di diritto del tempo. Questo episodio è stato raffigurato innumerevoli volte nella storia dell’arte. Famoso, tra gli altri, l’affresco conservato nel Tesoro della Basilica di S. Ambrogio a Milano che raffigura Gesù in cattedra e mentre segue la madre. L’episodio del Vangelo di Luca (2,41-50) è molto complesso perché i genitori, prima di ritrovare il figlio al Tempio tra i Dottori, lo cercano “angosciati” per tre giorni. Il racconto evangelico unisce il raggiungimento di una piena autonomia di giudizio e decisionale nei confronti degli adulti, anche nel confronto dei genitori, con il “rimanere loro sottomesso”: ovvero senza aver maturato nei loro confronti delle obiezioni di principio. Le immagini dei numerosi capolavori, come lo stesso testo di Luca, non lasciano dubbi sul fatto che Gesù di Nazareth non fosse un semplice “educando” o “un giovinetto”, o un soggetto in transizione, ma un soggetto pienamente autonomo, un interlocutore determinato e autorevole. Certamente non materia da plasmare o da “penetrare” secondo l’istanza platonica.

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Dalle rivoluzioni industriali a oggi

Sotto il profilo sociologico i cambiamenti maggiori circa la condizione degli adolescenti intervengono con le rivoluzioni industriali che si sono susseguite tra il ’700 e oggi. Per quanto i dati non siano omogenei e riguardino maggiormente le società occidentali, caratterizzate dal cosiddetto “capitalismo maturo”, essi tendono ad espandersi e ad essere esportati globalmente attraverso il mercato e la tecnologia. Questo spiega perché negli anni 80 del XX secolo si sia imposto un termine mainstream come teenager, che al di là del significato spicciolo, è andato ad occupare uno spazio linguistico autonomo. Teenager non è un semplice sinonimo di adolescente (chi ha un’età compresa tra i 13 e i 19 anni), ma indica un fenomeno sociale ed economico, connotato da una specifica identità sotto il profilo commerciale. Il teenager ha abitudini proprie, un look identificativo, consumi specifici nel campo del divertissement o dell’entertainment. Di conseguenza ha un’industria, un mercato e un marketing dedicati. Nelle prime fasi delle rivoluzioni industriali l’adolescente partecipava alla produzione industriale accedendo con fatica alla fase del consumo, mentre nel capitalismo maturo i teenagers partecipano all’industria ad essi dedicata solo come consumatori. Il consolidamento di questa fascia di età, ben distinta da quella infantile e da quella adulta, si motiva all’interno delle società occidentali con il progressivo allungarsi dei tempi dedicati alla formazione necessaria per impadronirsi delle “scienze” che immettono nel mondo produttivo. In queste società viene dunque accettato un lungo periodo di “impiego delle risorse umane” non produttivo, e una partecipazione alla vita sociale per molti aspetti passiva, non pienamente responsabile, cioè non pienamente adulta perché non pienamente autonoma. Considerata sotto questo profilo, la durata dell’adolescenza tende ad allungarsi in modo indefinito e per un numero di persone molto più ingente che in passato. Tale fenomeno sociale, unito ad alcuni importanti cambiamenti collegati ai comportamenti sessuali socialmente accettati o incoraggiati e al procrastinarsi vieppiù dell’inizio – complice la precarietà economica – di unioni stabili, dà luogo ad una fase di transizione verso l’età adulta connotata da una durata difficilmente valutabile e non più fisiologica. Una sorta di scimmiottatura – a tempo indeterminato – della vita adulta che non pervenendo, o pervenendo a stento e con ritardo, a forme stabili di autonomia economica e sociale, non ne colma a pieno la figura.

Crediti: Ragazzi di schiena, ragazzo seduto

Immagine di copertina: Skateboard

 

Psicoanalista dal 1995, socio della Società Amici del Pensiero – S. Freud (presidente Giacomo B. Contri). Già docente di filosofia nei licei, ha diretto un noto centro lombardo per persone adulte portatrici di handicap psicofisici.

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