Odòn editrice offre al gusto dei suoi lettori il romanzo Il mestiere delle porte bianche, prima prova letteraria di Giuseppe Azzarello, medico. Il titolo stesso, l’immagine di copertina che subito coglie un ambiente e un’atmosfera a noi tutti consueti, e la professione dell’autore non lasciano dubbi. L’argomento si incentra dunque su cronache e vicende di un ospedale del nostro paese, pur velate dalla forma narrativa? Anche, ma non solo. L’accento è sul mondo della sanità pubblica vissuta e sofferta dietro le quinte o in primo piano da medici e pazienti, presa com’è nei lacci delle dinamiche e convenienze politiche? Anche, ma non solo.
Nessuno scrittore, neppure il più riservato ed elusivo, resisterà dall’ammettere prima o poi: “certo, lì dentro c’è roba mia”.
Oltretutto, la forma del racconto è personalissima e intima: il memoir, un viaggio a ritroso nel tempo e nel ricordo per rimettere insieme i pezzi di una storia che si è rotta, fare i conti con sé stesso e le proprie scelte per trovar quiete e infine star bene, super-io permettendo.
Il protagonista Sandro Torti, medico di molte battaglie e armistizi (vincitore perdente, verrebbe da dire), invia a una giornalista amica, di provata lealtà e competenza, un manoscritto (ancora un manoscritto, direbbe Eco: espediente collaudato e sempre efficace) che quella storia ripercorre e ricostruisce dai frantumi cui è ridotta. Ne faccia ciò che vuole, che è come dire: sei libera di pubblicarlo. Se non vuoi vivere diviso e soffrire, il privato diventi pubblico (parafrasando il buon Sigmund). Così sarà.
Storia di un sodalizio di lavoro e vita e amicizia che dura dai tempi dell’università, una comunione di intenti e progetti coraggiosi in campo professionale: diversi per slanci e pose e stanchezze e dubbi e irrequietezze e il modo stesso di gestire successi difficoltà acredini, ma così simili e solidali, trasparenti e rispecchiati come di qua e di là di un vetro illuminato dal sol dell’avvenire. Finché il sasso della realtà, la cruda realtà che resiste a ogni interpretazione, colpendo le porte bianche e svilendo il mestiere colpisce quell’immagine e rivela fra i due una differente idea del mondo e del possibile. Quel vetro è ragnato, gli sguardi più non s’incontrano. C’è chi è venuto a patti con l’ideale… e con i sogni. Ma salvando la baracca. Già, storia vecchia.
Dunque il memoir (quasi una palinodia degli antichi Greci), la scrittura governata con delicatezza e misura. Andando indietro con la memoria, tornando sui propri passi, è un altro paesaggio che si rivela al viandante, da percorrere con onestà intellettuale e tutto il bagaglio di sé. Interminabile, il viaggio. Ci vuol mestiere, e cuore attrezzato a sopportare le attese, quando presto manca l’aria e i pensieri si affollano e nell’ingorgo s’ammalano. Dunque si va, per porte, varchi e soste. Bagaglio a mano o baule (doganiere permettendo) o tascapane di escursionista, ci si porta sempre tutto appresso: oggetti d’uso, stagioni e volti, effetti personali, competenze e visioni, libri e canzoni, Bulgakov e Gaber, emozioni d’amore, viveri per vivere. A ogni aggiornamento di esperienza o sorpresa, si infila la mano tastando e rovistando, incerti se dia ansia o senso di libertà la rinfusa che scompagina l’ordine delle cose. E ogni giorno son passi, andirivieni sotto i neon, prontuari dialoghi consulti, sorrisi stenti, occhi di speranza, e quell’odore che nessun sapone. È lavoro, è sapere per saper dire a chi l’aspetta la parola come pane razione quotidiana. Pare semplice: la parola, l’ascolto, il silenzio, il gesto. Ricco e prezioso, l’armamentario al seguito, certo. Ma a ben guardare, che c’è lì dentro? Il male e il rimedio, il dolore e il sollievo, di volta in volta l’un per l’altro sparring partner o servo di scena. Questi i ruoli, non altri. A fine giornata, al parcheggio le stelle paiono attendere il tuo sguardo stanco prima di spegnersi dietro la corsa delle nuvole che regala il sapore fragoroso del mare. Avviando il motore, chiedersi se si è fatto tutto, se si è fatto abbastanza. Anche per oggi non si vola. Ma domani, with a little help from my friends.
Appunto, “lì dentro c’è roba mia”. Emozioni che rivelano, sentimenti che s’imparano dalle humanities così care all’autore, soltanto se sai dirli li conosci e li vivi, dirli finché ti sembra di non poterli dire meglio. E un attimo dopo si ricomincia. Tutto e solo per riuscire a incontrare l’altro, e sentire ciò che risuona.
La formazione classica, l’armamentario appunto, trova eco nelle citazioni in capo ai capitoli. Piace citare la prima, Epistula non erubescit (la lettera non arrossisce): è il pudore di chi sul foglio bianco riesce meglio a esprimere ciò che sente, piuttosto che di fronte a uno sguardo.
Poiché quel bagaglio di humanities è così simile a quello di chi scrive queste impressioni di lettura, mi provo anch’io.
C’erano cose che volevo dirgli. Ma sapevo che gli avrebbero fatto male. Così le seppellii e lasciai che facessero male a me. (Jonathan Safran Foer, dal suo romanzo Molto forte, incredibilmente vicino).
Aggiungo L’illogica allegria di Gaber, da sentire tutta, e sentire ancora.