E’ fresco di stampa, pubblicato alcuni giorni fa anche sul nostro shop on-line, il nuovo libro di Carlo Arrigone, dal titolo Uno psicoanalista sul Cammino di Santiago
Nicole Bolla ha rivolto all’autore alcune domande, in forma di intervista.
Quando ha deciso di scrivere questo libro, e quando di pubblicarlo?
La voglia di raccontare la mia esperienza sul Cammino di Santiago è nata pochi giorni dopo il mio rientro, quando mi sono reso conto che avevo un forte desiderio di condividere i motivi che mi avevano spinto a partire. È molto difficile raccontare un’esperienza tanto personale e intensa. Quando sono partito le persone intorno a me non capivano perché volessi farlo e quando sono tornato mi sono reso conto che era inspiegabile.
Ricordo che al mio arrivo a Malpensa, stava facendo buio, dopo aver abbracciato mia moglie, ho notato un pellegrino in mezzo alla folla. E lui ha riconosciuto me. Ci siamo subito messi a parlare e l’ho sentito amico, in sintonia: uno tra migliaia di persone, ma diverso perché pensavo che potesse capire quello che avevo provato anch’io. Ma non era così: ci siamo scambiati notizie da turisti che sono stati nello stesso posto, entrambi abbiamo dato per presupposto che avessimo provato le stesse cose, ma non ce lo siamo detto.
Tutti quelli che hanno fatto il Cammino dicono che solo chi ha provato può capire, ma in fondo è un’esperienza che ciascuno vive a modo suo. Ciascuno è partito con le sue motivazioni e lo ha vissuto a suo modo. Quello che ci accomuna è che ci sentiamo tutti pellegrini, anche quelli che l’hanno fatto per motivi “spirituali”.
Tutti, o quasi, si sentono cambiati dal Cammino, ma pochi riescono a raccontare le ragioni di quello che hanno vissuto. Alcuni non vogliono nemmeno farlo e vanno rispettati. Ma ad ogni modo, io non ho scritto questo libro per sponsorizzare il Cammino di Santiago, che non ha bisogno delle mie pagine per essere conosciuto.
Credo che mi abbia spinto il desiderio di condividere le ragioni per cui sono partito, le scoperte fatte e l’unicità della mia storia. Non perché credo che sia eccezionale, ma perché, come ho scritto nel libro: “la mia storia è solo mia e la potevo raccontare solo io”.
Pochi giorni dopo il mio ritorno, quando sentivo che non riuscivo a raccontare alle persone intorno a me, iniziai a scrivere un pezzo della mia storia su un gruppo di un social. Scrivevo a sconosciuti, sapendo soltanto che sono appassionati del Cammino, nient’altro. Ero mediato dalla mia tastiera, in fondo ricapitolavo scrivendo quello che avevo vissuto, e parlavo alla carta, allo schermo. Avevo scritto di getto, come ho sempre fatto in tutta la vita.
E invece trovai centinaia di consensi dove mai avrei immaginato di trovarli: così scrissi un altro pezzo sempre di getto, seguendo i pensieri e i ricordi, un po’ come mi sono abituato a fare in analisi, per libere associazioni. E poi una terza sera… Divenne il mio appuntamento fisso, la mia seduta giornaliera. Scrivere mi confortava e mi faceva piacere. Così mi trovai a scrivere per un mese, un pezzo ogni sera, per trentatré sere, come sono le tappe del Cammino Francese, per chi come me cammina piano. Fu quel pubblico di qualche centinaio di affezionati pellegrini che per primi mi chiesero di scrivere un libro.
Io allora dissi di no, non me la sentivo e non mi sento uno scrittore. Ancora speravo che intorno a me capissero, ma non accadde e la mia esperienza era ormai passata e dimenticata.
Poi sono stato male e per un mese non ho potuto camminare. In quei giorni in sedia a rotelle mi sono reso conto che avevo avuto un’altra occasione, non per rifare il Cammino, ma almeno per raccontarlo. Parlare mi era molto difficile, ma con fatica riuscivo a scrivere. L’idea di pubblicare il libro è nata così. Quando dopo quel malessere non riuscivo nemmeno a parlare ho iniziato a desiderare che la mia storia rimanesse nonostante me, ciò che non usciva con le parole poteva essere scritto. Ho deciso di parlare attraverso la carta ed è stato difficile e lungo, non riesco più a scrivere di getto e faccio tantissimi errori di battitura. Il malessere mi ha lasciato degli strascichi neurologici, non solo perché mi manca coordinamento nelle dita, ma anche perché ho perso la capacità di pazientare, e scrivere è stato per me un lungo esercizio. Sono realmente passato dalla parte dei “malati”, le persone che mi sono vicine sanno bene le fatiche che hanno dovuto sopportare per la mia mancanza di pazienza.
Espormi non è un problema, anzi ho proprio voluto raccontarmi. Sono profondamente convinto che, per quanto siamo profondamente diversi, c’è qualcosa in ciascuno di noi che ci rende simili, qualcosa in cui tutti ci possiamo riconoscere,
Come professionista ho scritto qualche saggio, numerosi articoli, ma sempre in modo distaccato, come è logico che sia. Ma quando incontro le persone, non solo i mei amici, ma anche nel mio studio, io le ascolto e cerco di comprenderle, perché parto dalla certezza che le sue fatiche individuali, per quanto uniche, sono incontrabili nella sua consistenza umana.
Nel profondo del cuore siamo vicini, possiamo incontrarci. Ogni uomo, come me, vuole dar voce al suo desiderio, vuole avere soddisfazione, vuole che la sua vita vada bene.
In questo libro racconto le mie domande, le mie fatiche, le mie sofferenze perché sono certo che il lettore mi capirà, perché sono le stesse domande che ognuno in fondo si pone, ma pochi riescono a dare voce a queste domande, perché non si sentono ascoltati o hanno paura. Il mio è un invito a non aver paura del giudizio altrui, perché in fondo abbiamo la stessa natura, le stesse fragilità.
Certo, ammettere il proprio bisogno espone, fa sembrare fragili, ma è l’unico modo di incontrare l’altro: riconoscendogli la capacità di darci il suo contributo per il nostro ben-essere. Nel libro racconto di un incontro, rapido in realtà: la salita era faticosa e si stava mettendo a piovere. Ero stanco e non avevo nulla per coprirmi. Una pellegrina mi supera e dopo poco si ferma per mettersi la mantella, ma non riesce a infilarla per via dello zaino, del vento, della stanchezza, non saprei. Io lentamente la raggiungo e allungo una mano e la aiuto a infilare la mantella. Semplicemente. E non perché sono più forte, non perché cammino meglio, non perché ho una mantella più bella, ma solo perché in quel momento sono li e posso farlo.
Di quel gesto al momento sembra non sia rimasto nulla, e io stesso non mi sono reso conto del legame che si è creato. Non ho più rivisto quella pellegrina dopo quel giorno nella tempesta. Ma quando ho iniziato a scrivere sul gruppo social lei mi ha contattato riconoscendomi. Ecco: ad un certo punto ci si riconosce. L’incontro è fatto di questa semplicità che non ha nulla a che vedere con il giudizio, con la forza o la fragilità.
Ho voluto sottopormi al giudizio per dare testimonianza a tutti che solo così possiamo incontrarci: raccontandoci. Come in una storia d’amore: solo se ti esponi con l’altro avrai la possibilità che ti accolga e iniziare un cammino insieme. Carlo Viberti lo ha ben sintetizzato così: “insomma la solita meravigliosa storia, vecchia come il mondo, di chi ama e di chi è amato.”
Lo psicoanalista è passato dalla strada dell’analisi come paziente/analizzato, ha iniziato chiedendo aiuto per sé. E come è stato accompagnato sul quel lungo cammino che è l’analisi, si offre di accompagnare altri. Sul Cammino capita spesso di trovare gestori degli albergue, i cosiddetti hospitaleros, che sono stati dei pellegrini, che hanno deciso di accogliere (hospitalero rende l’idea) altri pellegrini come essi sono stati a loro volta accolti.
La verità è che io per primo ho lavorato su di me perché ne avevo bisogno, e come ho scritto nel libro: “Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per me. Mi sono preso cura di altri perché ho bisogno di essere curato.”
Il Cammino è una grande metafora dell’analisi e la trovo particolarmente appropriata perché è un percorso che ognuno fa a modo suo, con i suoi tempi, i suoi passi, le sue scoperte, le sue tappe, con la sua sensibilità nel vedere e sentire intorno a sé e dentro di sé. Ma soprattutto è personale, cammini tu, ti devi mettere in gioco tu; sei tu il protagonista di ogni passo, di ogni scelta, di ogni incontro. Sul Cammino si va con uno zaino, come in analisi si va con dei “pesi”. Sul Cammino come in analisi fai delle scoperte, ancora una volta personali.
Ho voluto raccontare che uno psicoanalista è in cammino come tantissimi altri pellegrini, è una persona normale che si mette in gioco in prima persona, ha i suoi pesi, ha le sue domande a cui cerca una risposta, fa le sue fatiche, le sue scoperte.
Questa verità è uno dei messaggi fondamentali del mio racconto: tutti abbiamo bisogno di prenderci cura di noi, tutti abbiamo bisogno di cure, di attenzioni, di ascolto, di vicinanza.
Un pellegrino che ha bisogno di ospitalità (per la notte, per le intemperie, per un po’ di ristoro) essendo stato accolto diventa hospitalero, così come l’analizzando che aveva bisogno di ascolto per poter capire può diventare analista, che a sua volta ascolta per aiutare a capire. L’hospitalero accoglie, non fa le salite al posto del pellegrino, così come l’analista ascolta, non risolve al posto dell’analizzando.
Poi c’è un aspetto particolare perché personale, che non ho nascosto, perché la mia malattia ha solo reso più visibile a me e a tutti la mia fragilità, che non è debolezza, ma la natura di cui siamo fatti. La constatazione di essere malato rende ancora più evidente la verità di quello che tutti siamo.
“Quel poco di cammino che ho fatto dove mi ha portato? Sono partito pensando di curare gli altri e mi sono ritrovato ad aver bisogno di cure come e più di tutti. Oggi mi ritrovo dalla parte dei ‘malati’, ma ho sempre saputo che ne avevo bisogno, fin dall’inizio.”
Nel libro racconto che sono il responsabile di una comunità per ragazze e so bene perché ho scelto questa strada così impegnativa: “Ho bisogno che queste ragazze mi curino” e sono certo di non dover temere il loro giudizio. Loro capiscono bene che siamo tutti sullo stesso cammino, loro come me cercano di star bene facendo fatiche enormi, ma lottano ogni giorno. “Ciascuna di loro merita l’onore di essere riconosciuta come una grande anima coraggiosa, che lotta e cammina ogni giorno per tornare a vivere degnamente.” Per questo le chiamo “guerriere”. Loro sono le vere protagoniste del mio racconto insieme a quelle fantastiche persone che lavorano con loro e per loro.
Io le accompagno come loro accompagnano me: quella che racconto è una civiltà, dove ci si cura l’uno dell’altro. “Io mi curo di loro e loro si curano di me: in questo sta il segreto per la loro cura.”
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Quando sono partito sapevo solo che volevo partire, che avevo bisogno di farlo o, come ha scritto Luciano Piscaglia nella sua introduzione “dovevo farlo”. Il resto l’ho scoperto sul Cammino.
Avevo tante domande, sentivo forte il bisogno di tornare a dare un senso a quello che stavo facendo e capivo che le persone che stavano intorno a me avevano bisogno, come me, di ritrovare qualcosa che si era offuscato nei nostri cuori. Il libro porta nel suo esergo una frase di una delle ragazze della comunità: “dov’è finito il nostro desiderio?”. Questa è la vera domanda che mi ha accompagnato e mi accompagna, e credo che sia la domanda che in fondo muove ogni pellegrino, prima ancora che lo diventi. L’ho scoperto camminando, come credo che capiti a tutti.
Oggi, dopo tanta strada, ma ancora in cammino, direi che essere pellegrino per me è cercare di riappropriarmi del mio desiderio. Lacan chiedeva: “avete agito in conformità al desiderio che vi abita?”. E sul Cammino riconosci nello sguardo degli altri la stessa domanda. Si parte per un desiderio, il nostro e solo nostro. Come ho scritto “non è facile partire”, perché non hai abbastanza tempo, lavori e non ti danno le ferie, hai dei figli piccoli, delle responsabilità, gli altri non capiscono… Eppure quando senti il desiderio di farlo, forse per la prima volta ti accorgi che devi sostenerlo tu, anche a costo di andare contro qualcuno, devi difendere tu il tuo desiderio, nessuno ti spiana la strada. Ci sono salite, intemperie, fango, dolori, imprevisti… come poi ti succede sul Cammino. Quando sei partito ti accorgi che sei diventato pellegrino quando hai deciso di partire, cioè quando hai deciso di prenderti sulle spalle lo zaino del tuo desiderio e portarlo davanti a tutti. Sul Cammino incontri ragazzi molto giovani, donne sole, persone anziane, malati… Ciascuno di loro ha dovuto guadagnarsi il suo Cammino prima ancora di partire, discutendo con i genitori, sfidando le paure, sfidando l’età, lasciando a casa i suoi cari, non lasciandosi fermare dalla malattia…
Ogni analizzando (colui che si rivolge a uno psicoanalista) è un pellegrino. Ma anche l’analista lo è. Si cammina insieme, ciascuno porta il suo zaino e scopre camminando, parlando, pensando, ascoltando.
Tantissimi pellegrini, me compreso, partono con zaini pesantissimi: come nella vita. Durante il cammino (ogni esperienza lo è) lentamente capisci che devi abbandonare delle cose, ti accorgi di ciò che non ti è essenziale ma ti pesa sulle spalle. Cose che fino a ieri ritenevi indispensabili oggi sono solo un peso in più, inutile da portare. Come in un’analisi.
Credo che di indispensabile ci sia solo la voglia di imparare. Parti con tante certezze, convinzioni, verità, ma se hai voglia di imparare lasci tante cose inutili e tante ne trovi.
Se hai voglia di imparare incontri gli altri, conosci nuovi posti fuori e dentro di te, ti accorgi di quello che avevi davanti e non avevi mai notato. Non serve nient’altro: quello che non hai lo troverai, oppure lo compri. Ma se non hai soldi non importa: trovi ciò di cui hai bisogno anche se non paghi. Sul Cammino si chiama “donativo”: una parola molto evocativa che a volte è accompagnata da questa scritta: “prendi quello di cui hai bisogno, lascia quello che puoi”. Ti viene offerta ospitalità negli albergue (ostelli) ma anche cibo, acqua, frutta, dolci… in cambio di quello che puoi dare.
E su questo poter dare si gioca la tua libertà, nessuno la giudica. Quello che hai lasciato, quella parte del tuo zaino che non ti serve più, rimane a disposizione degli altri pellegrini, perché magari a loro serve. Una felpa, una coperta, un pezzo di corda, le ciabatte, una crema solare… Un giorno ho incontrato un pellegrino senza soldi, che tornava da Santiago, a piedi perché non poteva pagarsi un biglietto di treno o di aereo: era felice perché quel giorno gli avevano regalato una tenda da campeggio e gli avevano offerto da mangiare. Aveva tutto quello che gli serviva perché quando aveva bisogno poteva sempre incontrare qualcuno che si prendeva cura di lui.
Se hai voglia di imparare, se accetti l’altro, lascerai per strada il tuo orgoglio e scoprirai la bellezza del “donativo”.
A chiunque voglia mettersi in gioco, a tutte le età. Non è mai troppo tardi per mettersi in cammino, e non è mai troppo presto. È un invito rivolto a tutti: “fare insieme un pezzo di cammino sul terreno a volte duro dell’esperienza, condividendo domande, riflessioni e scoperte. Nel pieno rispetto della strada, del passo e della libertà di ciascuno” ha scritto Luciano Piscaglia nella Presentazione.
I modi di camminare possono essere diversi e ciascuno può trovare il suo. Qualche tempo addietro ho visto un film, poco conosciuto, dal titolo Ti porto io (Mescalito distribuzioni), che racconta l’avventura di due amici: uno dei due, gravemente disabile, confessa all’amico che sogna da anni di fare il Cammino di Santiago. L’altro risponde: “ti porto io”. L’incipit del film lascia ben intendere la storia di questi due, che si avventurano, uno spingendo la sedia a rotelle dell’altro, sui sentieri del Cammino. Eroico per certi versi, ma in fondo semplice: chiunque può mettersi in gioco e trovare qualcuno che lo accompagnerà.
Il mio libro è un invito a fare insieme un pezzo di cammino: ti porto io, e magari vorrai provarci anche tu.
AGGIORNATO IL: 13/09/2021
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Crediti: Santiago di Compostela, Alto del Perdon
Immagine di copertina: Santiago di Compostela, Parco Bonoval