Psicologi, psicoterapeuti, educatori, assistenti sociali: tutti professionisti che hanno scelto di dedicarsi alla cura dell’altro, spesso senza essere davvero consapevoli di cosa ciò comporterà e di quali siano i motivi profondi che soggiacciono ad una simile scelta di vita.

Quanto è importante prendersi cura di chi si prende cura?

“Non c’è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il nostro proprio dolore è così pesante come un dolore che si prova con un altro, verso un altro, al posto di un altro, moltiplicato dall’immaginazione, prolungato in centinaia di echi” (M. Kundera)

Non di rado, solo dopo molto tempo dall’avvio degli studi e della professione, si comprendono le motivazioni sottostanti tale scelta, che rappresenta una sfida interessante ma complessa. 

Sono molti i motivi che possono spingere a svolgere una professione di aiuto, ciò che spesso accomuna questi professionisti è l’avere un sistema dell’accudimento ipertrofico: detto in termini semplici, prendersi cura degli altri è uno scopo centrale che fa star bene la persona.

D’altra parte, questo meccanismo comporta numerosi rischi: quando abbiamo intrapreso l’università non pensavamo a tutte le situazioni in cui non saremmo riusciti ad essere di aiuto, ma per lo più ci immaginavamo come qualcuno che fa sempre qualcosa di buono per l’altro, che quindi ne sarà contento e magari anche grato e riconoscente.

Nessuno ci racconta che la storia è un po’ diversa, quantomeno a volte.

Cosa significa occuparsi ogni giorno dei problemi e del dolore emotivo degli altri? Come ci si sente ad essere depositari delle più drammatiche esperienze umane? Cosa succede quando un professionista vive a sua volta un momento difficile di vita? Come ci si sente quando, nonostante i propri sforzi, l’altro continua a star male? Come si sente un professionista quando il suo paziente o il suo utente, sta così male da scegliere di porre fine alla propria vita?

La prolungata esposizione al dolore altrui, e il conseguente senso di impotenza che, soprattutto nei casi più gravi, il professionista può sperimentare, possono esitare in un vero e proprio esaurimento emozionale connesso alla percezione di non disporre di sufficienti risorse cognitive, psichiche e fisiche, per adempiere al meglio al proprio lavoro. In questi casi possono emergere alcuni comportamenti, di fatto disfunzionali, quali il distacco emotivo nei confronti degli utenti, con la conseguente perdita della capacità empatica, la deresponsabilizzazione rispetto ai propri compiti, fino a sviluppare atteggiamenti di cinico distacco nei confronti della sofferenza. 

Con il termineCompassion fatigue [affaticamento da compassione], si definisce uno stato di tensione e preoccupazione, caratterizzato da una sintomatologia simile a quella del Disturbo Post-traumatico da Stress (evitamento, confusione, intrusioni) e che può manifestarsi in chi è frequentemente o stabilmente esposto alla sofferenza e al racconto delle altrui esperienze traumatiche (Figley, 2002). E’ evidente come il rischio di incorrere in questa condizione possa essere alto per uno psicoterapeuta.

Un’esperienza comune tra gli psicoterapeuti e gli operatori sociali, che a vario titolo lavorano nei servizi territoriali è la tendenza ad alternare vissuti di onnipotenza, in cui ci si sente dei “salvatori” in grado di garantire la salvezza a chi è stato ferito e non protetto, a vissuti di profondissima impotenza, connessa al prendere consapevolezza dei limiti dei propri rispettivi ruoli. 

In molti casi sperimentare l’impotenza, la frustrazione, l’impossibilità di essere di aiuto fino in fondo condiziona pesantemente l’equilibrio emotivo del professionista, in modo particolare quando questi vissuti fungono da cassa di risonanza di proprie ferite pregresse, di cui si può essere più o meno consapevoli. In questi casi ci si può trovare a svalutare il proprio lavoro, le proprie capacità, sentendosi poco capaci e non all’altezza di un compito così complesso. 

Ecco perché è così centrale che i professionisti che svolgono professioni di aiuto, si concedano di mettere al centro la cura di sé. Spesso ci prendiamo cura della parti vulnerabili degli altri, con empatia, compassione, accettazione ma rivolgiamo verso noi stessi un dialogo tutt’altro che gentile e compassionevole. 

Qual è quindi il “giusto mezzo” tra il fare bene il proprio lavoro e non fare del male a se stessi?

Per essere d’aiuto dobbiamo poter essere connessi alle nostre emozioni ma soprattutto riuscire a guardare a noi stessi e al nostro lavoro attraverso occhi più gentili e amorevoli, come se fossimo i nostri migliori amici.

In termini psicologici, questo si traduce nella pratica della self-compassion, che consta di tre componenti: gentilezza vs. atteggiamento giudicante, umanità condivisa vs. isolamento, mindfulness vs. eccessiva focalizzazione sul sé (Neff e Knox, 2017).

I professionisti dovrebbero quindi essere aiutati a comprendere i propri stati emotivi elicitati dall’utenza, per innescare un circolo virtuoso che permetta di uscire dal senso di isolamento, favorendo un atteggiamento verso sé stessi di comprensione empatica, che alla base del prendersi cura di sé, indispensabile per svolgere, nel migliore dei modi il proprio ruolo professionale.

E’ fondamentale, insomma, trasformare la compassione in una risorsa per la crescita, prima che diventi motivo di esaurimento emotivo.

Citando le parole del Dalai Lama: Se vuoi che gli altri siano felici, pratica la compassione. Se vuoi essere felice tu, pratica la compassione.

Psicologa clinica e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale.
Esperta in psicotraumatologia e accreditata come terapeuta E.M.D.R. Practitioner. Socio fondatore dello Studio Amigdala, psicologia clinica e psicoterapia di Milano.

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