Stimata dottoressa,
conosco per sommi capi la sua proposta psicoterapeutica, che so imperniata sulla scrittura. Proprio del linguaggio ho particolare interesse.
Anni fa ho fatto l’analisi – un’esperienza fondamentale su cui non mi dilungo – che cito proprio perché fondata sulla parola: sullo scioglimento della sintassi a favore del libero eloquio del pensiero istantaneo, senza omettere né ordinare nulla di ciò che affiora. Un modo di “dirsi”, di “tirar fuori” accostabile alla poesia, come cita fra altri un testo di recente lettura, “Il pensiero immobile”, ove si ribalta il vecchio precetto latino res tene, verba sequentur. Ma anche – di tutt’altro ambiente, provenienza e intenti – la tecnica espressiva del cut-up, nata con il dadaismo, poi impiegata molto più tardi dallo scrittore William Burroughs, e di recente nei suoi testi musicali da Michael Stipe con la sua band rock, i Rem, nome non a caso della fase del sonno più ricca di sogni. E ancora: l’assoluta “pulizia” di Thomas Mann, e di Calvino, e all’opposto il “flusso di coscienza” di Joyce, e la concitazione del rap e del trap.
Vengo alla domanda e alla richiesta: quanto – e come – l’ordine in cui prende forma un testo scritto si presta al “disordine” dell’evocazione di tutto ciò che in quell’ordine non riesce a stare, e preme dal profondo per liberarsene? Al grazie unisco i complimenti per il suo lavoro, che da molte voci so proficuo. C.G.G., Torino
La risposta di Sonia Scarpante
Gentile lettore,
grazie per avermi scritto e posto queste domande che suscitano in me interesse e curiosità.
Ho letto il testo che lei cita Il pensiero immobile e ho trovato in esso una lettura significativa e profonda, soprattutto quando lo sguardo si allarga sul femminile e si apre alle testimonianze di vita, emblematiche nella storia che le compone per una parità sociale ancora oggi ibrida, da costruire e su cui investire. Una visuale sul femminile che obbliga ad una riflessione minuta per un periodo storico, e lo sappiamo bene, che non è ancora riuscito a dare il cosiddetto “colpo di coda” a problemi millenari ed ancora insoluti. Vengono citate donne della storia che sono sempre state additate e rese ree quando la loro forza e natura trovava giuste fecondità espressive, quando le loro idee preziose e avveniristiche cercavano manifestazioni elettive nella collettività. Additate sempre come donne un po’ matte e streghe. Oggi ci viene richiesto un atto di responsabilità netto ed incisivo anche da parte di quella parte del cielo che a volte fa fatica a dare parola al proprio sentire, indugia sul lato emotivo: il maschile. E mi chiedo perché non fare riferimento sempre più al genere neutro perché in tutti noi coesistono quelle due parti, l’una assimilabile all’altra.
Quelle due voci maschili che hanno scritto questo testo inducono ad una nostra importante riflessione che è legata alla rivalutazione del genere neutro dove le due parti possano compenetrarsi e diventino segno di identica valutazione. È l’interiorità che dovrebbe sovrastare quella che noi reputiamo essere una differenza. Ho apprezzato nella lettura l’intenzione, che si cela fra quelle parole intrise di storia al femminile, di porre attenzione su una discrepanza ancora attuale fra maschile e femminile non più sottovalutabile e da portare in luce in ambiti preziosi che sottendono alla cultura e al sociale. È come se dietro quella trama io leggessi una richiesta di virtù, di saggezza collettiva.
Chiusa questa parentesi in cui però, devo dire, mi sento sempre molto coinvolta, inizio a raccontarle che innanzitutto non sono una psicoterapeuta e che la scrittura è il mio sacro fuoco, l’ardore con cui mi cimento senza porre resistenza, la vertigo che può innalzare le mie risorse a fecondità inimmaginabili. La scrittura intesa come indagine, come tecnica introspettiva è fortemente esperienziale e riesce a sondare spesso anche le ombre della nostra interiorità e man mano che la si esercita la si possiede nel suo vulnus, nel suo vigore. La lettera poi è quella forma espressiva che facilita il percorso di conoscenza interiore perché indirizzando la missiva al desiderato interlocutore, creiamo una tessitura che si compone di memoria, di desiderio e di ricerca. La lettera dedicata, e quella dell’incipit auto dedicata (a me stesso- cerniera del lavoro), facilita un percorso di comprensione del sé, che nella rilettura a tratti si rileva impensabile, parte feconda oltre il nostro immaginario, ardita nel suo fulgore. E quindi molto spesso da tanti sorge la domanda: “Quanto mondo abbiamo dentro e quanto di esso la scrittura sa mettere in luce ampliando le sue risonanze?”. Attraverso quell’ordito la storia della persona si compone e si ricompone come se, filo dopo filo, congiungessimo tutte le tessere di un mosaico dove il mosaico rappresenta la psiche dell’umano. È una scrittura su cui è importante darsi fiducia, relazionarsi con essa ancorati al coraggio anche se la memoria svelandosi ci inoltra nel passato, nei momenti di sofferenza introiettati, nei nodi irrisolti, nelle verità negate.
Ma oltremodo è una scrittura che sa aprirsi al possibile, all’alterità, alla capacità di rivivere emozioni rendendole meno caustiche ed incandescenti, attutite nel suono della partitura che sa scandire i tempi della riconciliazione. Una sutura attraverso lo scrivere che avvertiamo sempre più netta quando cavalchiamo l’onda della spontaneità e la mancanza di giudizio e pregiudizio che si annidano sempre dentro noi.
Lo scrivere crea quell’ordine che non pensavamo di incontrare all’inizio di questo viaggio; inconsapevolmente è come se ci trovassimo proiettati in avanti con una trasparenza che pensavamo non competerci, una trasparenza che appare sempre più indelebile nei suoi contorni via via che la percorriamo.
In uno dei miei ultimi testi Parole evolute. Esperienze e Tecniche di scrittura terapeutica, cito la scrittura come atto performante perché durante questo tragitto di conoscenza interiore si avverte quanto un uso costante della scrittura ci aiuti a crescere, ad evolvere e solo vivendo appieno questa esperienza ci riconciliamo con quel cambiamento in atto che è frutto sempre di maturità, di presa di coscienza. Man mano che l’aderenza di quel tocco su foglio diviene atto plastico si evidenzia un amalgama fra lo scrivente e quel cambiamento come fatto normale di crescita.
La parola come Cura è processo meditativo evidenziato spesso dal caro Eugenio Borgna in tanti suoi testi e pubblicazioni e mi ritrovo molto in alcuni suoi pensieri… La premessa a queste esperienze e a queste conoscenze del cuore è sempre la stessa: ascoltare, essere in dialogo continuo con il dolore e la sofferenza, con i desideri e le attese, con le inquietudini e le speranze, delle persone che stanno male, e chiedono un aiuto, che non sia solo farmacologico. Quando stiamo male psichicamente, crescono la nostra sensibilità e la nostra attenzione alle parole che ascoltiamo. (Eugenio Borgna. Il fiume della vita. Una storia interiore).
La scrittura terapeutica da cui è nata una mia metodologia si inoltra dove le è possibile arrivare con quell’aderenza alla propria storia a tratti anche commovente e mai superficiale per quante vite si incontrino. Una storia che diviene costrutto formativo e se poi l’esperienza si tramuta in coro nella condivisione di gruppo la scoperta di affinità identitarie e solidali è veramente notevole. Attraverso la parola si nobilitano le coscienze e il gruppo si autoalimenta attraverso una narrazione reciproca costruita sulla fiducia e sulla gratitudine. Imparo a conoscere me attraverso te.
I nodi della vita attraverso la parola trovano espressione feconda e permeandoli di senso addolciscono il loro peso, affievoliscono quella forza che nella sua natura spesso si tinge di tinte fosche come la rabbia e l’aggressività producono. Si impara a costruirsi attraverso l’ascolto della sofferenza dell’altro, riuscendo a scorgere in essa un percorso di crescita trasformabile in capacità personale e relazionale. Le colpe affievoliscono la loro massa introiettata e con la scrittura si avverte sempre più quanto esse abbiano potuto condizionare le vite trasformandole in gabbie mentali.
Vorrei aggiungere anche una considerazione importante per quanto riguarda questo viaggio introspettivo con la scrittura perché come tutte le esperienze formative solo standoci dentro e ben eretti ed imparando a vivere quell’esperienza nelle sue fasi in crescita, possiamo esprimere una riflessione o una nota di approfondimento ulteriore. Non avviene forse così ugualmente per tutte le varie esperienze di vita? Senza conoscere rischiamo di dare giudizi approssimativi come nella vita è successo per me e per tutti in varie esperienze toccanti, viverle da protagonisti fa la differenza. Quando si realizza un percorso sulla memoria autobiografica con l’ausilio della scrittura imparando a starci e a confidare è più facile poi esprimere un parere o elencare alcune riflessioni pertinenti. Questo è il sentimento che ho raccolto da tanti miei corsisti e dalle persone che formo attraverso i Master.
Infine, desidero spezzare una lancia a favore della lettera, la forma epistolare che tanto crea e ci avvicina all’universo interiore, alla sua indefinitezza, a quei dubbi amletici che tanto alimentano il nostro sapere. Quante lettere assorbite e lette ci hanno fatto conoscere una certa figura o la profondità più vera di un dato scrittore… anche la sofferenza di un artista sempre alla ricerca del sé attraverso il tocco della sua ferita (Van Gogh- Lettere a Theo) La lettera è strumento semplice, emozionale, elemento catartico che più ci avvicina all’altro e a noi stessi in un rispecchiamento che può essere segno di tangibile virtù.
Sonia Scarpante – Comitato editoriale Odòn
Francesco Fanari
Redazione
Sonia Scarpante